Questa settimana vi voglio proporre due scatti di Giorgio Lotti, di cui avevo già scritto a proposito del servizio realizzato a Eugenio Montale. Il soggetto fotografato questa volta è Giuseppe Ungaretti (1888-1970), noto soprattutto per la sua attività di poeta-soldato durante la prima guerra mondiale e per il suo ruolo di ispiratore della poesia ermetica.
È il 20 luglio del 1969 e dalle 18:30 gli italiani sono davanti ai televisori per assistere alla diretta della Rai in occasione dello sbarco del primo uomo sulla Luna. Scienziati, artisti, personaggi dello spettacolo e del mondo della cultura seguono con attenzione le immagini trasmesse dal Telegiornale e tra di loro c'è anche Giuseppe Ungaretti, seduto a tavola davanti a un piatto di pasta e un bicchiere di vino. Insieme a lui, oltre a un inviato di Epoca, anche Giorgio Lotti aspetta l'allunaggio. Le immagini che ci ha regalato ritraggono un uomo nato ottantuno anni prima, spettatore di tanti avvenimenti e stravolgimenti che solo il XX secolo ha potuto mettere davanti agli occhi degli abitanti della Terra in una successione così rapida, che esulta durante l'avvicinamento dell'Apollo 11 alla luna e brinda a Neil Amstrong e ai suoi compagni sollevando una bottiglia di vino. Ritraggono la gioia di un uomo che ha visto due Guerre Mondiali, sufficienti, con tutte le atrocità che hanno portato, a far perdere ogni fiducia nel futuro, festeggiare, invece, la più grande conquista dell'umanità. «Questa è una notte diversa da ogni altra notte del mondo» afferma Ungaretti, ma chiarisce anche: «Gli uomini continueranno a vedere la Luna così come appare dalla Terra, anche se la sua conoscenza fisica e scientifica potrà essere approfondita o modificata. Ma per gli effetti ottici che ha sulla Terra, la Luna rimarrà sempre per i poeti, e penso anche per l’uomo qualunque, la stessa Luna». Non c'è un'analisi più chiara di ciò che è, in fondo, l'uomo: per quanto potrà gioire di un progresso che diraderà quelle nubi, quelle ombre che generano il mistero e quindi la poesia, sarà sempre in grado di vedere il mondo che lo circonda con gli stessi occhi con cui lo hanno ammirato coloro che hanno vissuto prima di lui. E chi sarebbe in grado di testimoniarlo meglio Giuseppe Ungaretti, nato e vissuto a cavallo di due secoli che hanno generato un vero e proprio spartiacque tra due epoche?
1 Comment
Quando la moglie è in vacanza (1955) È una delle immagini di Marylin Monroe più riprodotte e imitate, dal film Quando la moglie è in vacanza. La scena da cui è tratta è altrettanto famosa: Marylin si ferma su una griglia di aerazione posta sul marciapiede e al passaggio della metropolitana la gonna del suo celebre abito bianco si solleva scoprendole le gambe, nonostante il suo tentativo di tenerlo giù. Nella gran parte dei poster l'attrice è ritratta a figura intera, come qui a fianco. Nel film, invece, sono riprese solo le gambe di Marylin a causa del formato della pellicola (1,55 : 1), particolarmente lungo e stretto. È stato invece il fotografo Matty Zimmermann a immortalare la scena così come tutti ce la ricordiamo. Colazione da Tiffany (1961) Tra i fotogrammi più famosi di Colazione da Tiffany c'è da ricordare sicuramente quello della scena iniziale. È mattino presto e in una Manhattan che non si è ancora svegliata Audrey Hepburn, sulle note di Moon River, scende da un taxi e si ferma, con un biscotto danese in una mano e un bicchiere di caffè nell'altra, ad ammirare la vetrina di Tiffany. Con il suo abito da sera impreziosito da un ricco collier di perle, Holly Golightly (così si chiama il personaggio interpretato dalla Hepburn) è diventata un simbolo di eleganza e anche per questo è entrata nell'immaginario collettivo, tanto che chiunque saprebbe associare questo e altri fotogrammi famosi proprio al film tratto dal romanzo di Truman Capote. La scena in questione è stata difficile da girare per Audrey Hepburn, che odiava i biscotti danesi, era stata messa in difficoltà dalla folla accalcatasi nella Fifth Avenue per osservare le riprese del film ed era ben consapevole che lo stesso Capote avrebbe preferito Marylin Monroe per interpretare Holly. Nonostante tutto, è anche grazie a questa pellicola se la sua fama (insieme al suo portafoglio...) si è estesa a dismisura e se oggi tanti decidono di appendere la sua immagine alle pareti di casa. La dolce vita (1960) E come dimenticare il bagno di Anita Ekberg nella Fontana di Trevi in La dolce vita? Dopo una serata trascorsa in un locale, in compagnia del fotoreporter Marcello (interpretato dall'omonimo Marcello Mastoianni), Sylvia, così si chiama l'attrice impersonata dalla Ekberg, si incammina per Roma e, arrivata alla famosa fontana, vi si immerge invitandoci anche l'amico, al suono del celeberrimo: «Marcello, come here!». Nonostante avesse girato diversi film prima del capolavoro che ha fruttato a Fellini la nomination all'Oscar, è stata questa pellicola a rendere famosa la Ekberg in tutto il mondo, ma soprattutto a farla spopolare in Italia, dove si trasferì subito dopo le riprese de La dolce vita e ottenne la maggior parte dei successivi incarichi. Vacanze Romane (1953) Roma sembra destinata a consacrare le star del cinema alla celebrità: oltre alla Ekberg, infatti, anche Audrey Hepburn è stata resa famosa grazie a un film girato nella nostra capitale, con l'interpretazione della principessa Anna in Vacanze Romane. Sono diverse le scene celebri del film, tra cui quella che vede la Hepburn alla guida di una Vespa, mentre il giornalista Joe Bradley (Gregory Peck), seduto dietro di lei, cerca di riprendere i comandi del mezzo. Il giro in motorino dei due è la sequenza iconica della pellicola, con una Audrey Hepburn entusiasta alla scoperta di Roma. Sono state proprio la sua freschezza e la sua spontaneità a convincere il regista William Wyler che la nascente stella di Hollywood fosse la scelta giusta per il ruolo della protagonista del suo film e proprio queste sue doti devono aver creato una buona empatia anche con il pubblico, rendendo il personaggio della principessa Anna uno dei più ricordati della storia del cinema degli anni '50. Un americano a Roma (1954) Nando Mericoni, il protagonista di Un americano a Roma, è il prototipo dell'italiano medio del dopoguerra, che guarda sospirando agli Stati Uniti come a un paese di cuccagna in cui è possibile sognare un futuro migliore. Nando, interpretato dall'intramontabile Alberto Sordi, conosce l'America solo attraverso il cinema, ma cerca di ricreare l'ambiente a stelle e strisce nella sua Roma, imitando i suoi modelli e abbozzando qualche parola in un inglese maccheronico. C'è solo una cosa degli States a cui Nando, però, non sa abituarsi: il cibo. Dopo aver assaggiato quella che, secondo lui, è una vera cena americana, a base di latte, yogurt e mostarda, preferisce infatti ripiegare su un piatto di maccheroni, pronunciando la famosa battuta: «Maccarone, tu mi hai provocato e io ti distruggo adesso». L'immagine dell'«Albertone nazionale» con la bocca spalancata pronto a divorare una forchettata di spaghetti è spesso esposta in molti ristoranti ed è una delle icone della cucina italiana. Vuoi rivivere tutti questi momenti intramontabili del cinema? Ecco gli spezzoni dei film da cui sono state tratte le immagini:
Ieri pomeriggio sono stata al Rifugio degli Asinelli di Sala Biellese, una vera e propria "pensione" in cui sono ospitati piccoli equini che hanno avuto un passato travagliato, di abbandono o maltrattamento, oppure che sono stati ceduti da proprietari che non potevano più prendersene cura. La struttura è situata in un'area immersa nel verde dei boschetti a cavallo tra Biella e Ivrea ed è possibile anche scorgere all'orizzonte le Prealpi: la sensazione di ritrovarsi immersi nella natura è assicurata.
Per vedere altre foto visitate la mia gallery e l'album che ho pubblicato su Flickr.
La settimana scorsa ci siamo occupati di Giovanni Verga, famoso prosatore divenuto in età matura anche cultore di fotografia. Il personaggio di cui parleremo oggi, invece, amava soprattutto stare davanti all'obiettivo e i suoi ritratti sono lo specchio di un nuovo modo di rappresentarsi e di farsi rappresentare, in linea con le mode della sua epoca: signore e signori, ecco a voi Gabriele d'Annunzio. Ne Il Piacere, D'Annunzio scrive: «Bisogna fare la propria vita come si fa un'opera d'arte», citazione fin troppo abusata, anche dalla stessa critica, ma che in questo contesto calza a pennello. Sono diversi a sostenere, infatti, soprattutto tra coloro che non ne hanno apprezzato la poetica, che il vero e proprio capolavoro dell'autore abruzzese sia stata, in effetti, la sua stessa vita e, come con tutti i figli del proprio ingegno, D'Annunzio si è curato di non farle mai mancare quella che oggi definiremmo una buona "attenzione mediatica". Tutto ciò non deve farci dimenticare, comunque, che egli amava farsi fotografare non solo per lasciare un segno, un ricordo di sé, ma anche perché gli piaceva vedersi ritratto, in linea con un atteggiamento fin troppe volte, e forse con fin troppa semplificazione, definito narcisistico. In questo quadro rientra la sua attenzione alla qualità dell'immagine, verso la quale era scrupolosissimo, tanto che le immagini che lo rappresentano superano di gran lunga la media dell'epoca, e la sua ricerca della posa perfetta. Neanche a dirlo, D'Annunzio smise di farsi fotografare quando il suo aspetto smise di piacergli, sotto il peso di anni che non poté ricacciare indietro. Mi immagino uno shooting con lui e riesco solo a figurarmi il peggior soggetto un fotografo possa desiderare: esigente, mai contento e sicuramente prevaricatore, il classico che ne sa sempre più di te e che ti fa cestinare scatti su scatti perché il suo gusto sarà sempre più importante del tuo. Del resto, rientra perfettamente nel personaggio che tutti ci immaginiamo. Se osserviamo alcuni dei numerosi scatti in cui compare il Vate notiamo, oltre ai classici ritratti con o senza uniforme, sempre di tre quarti e dal profilo migliore, una serie di scatti in cui egli si trova in pose quotidiane (un bell'ossimoro, ma così è), immortalato immerso nella vita di tutti i giorni ma sempre con una composizione ben studiata. Vediamo D'Annunzio leggere sdraiato su un divano, intrattenersi con i suoi levrieri, andare a cavallo, tutte attività che rientravano in una sua ideologia, che facevano parte dell'uomo che egli voleva essere, o almeno di come voleva essere immaginato, e che gli interessava rimanessero impresse per sempre. È vero, Gabriele D'Annunzio ce l'ha fatta: ci ha restituito un'immagine di sé fatta proprio ad opera d'arte e gli scatti che lo ritraggono ci aiutano a dimostrarlo. Quella che passa davanti ai nostri occhi scorrendo le sue fotografie potrebbe essere una vita che non è vera vita, forse è addirittura troppa vita, se lo si può dire, ma certamente è grazie a questo che egli è ricordato anche da chi non si avvicina alla sua letteratura. Chissà se oggi ne sarebbe contento... Per saperne di più:
Diverse delle fotografie che ho inserito nel mio post sono state prese dalla galleria offerta dal sito del Vittoriale. Con #Piemontedafotografare scoprirai qualcosa in più sulla Regione in cui vivo e la vedrai attraverso i miei scatti. Se sono riuscita a interessarti, considera l'idea di venire a fare un giro per conoscere con i tuoi occhi la bellezza che mi circonda! E tutto tace. Non il sepolcrale silenzio rompe il suono degli squilli non latrato di veltri. L'autunnale luce è silente. Non canto di grilli estivo e roco. Solo indefinito fievole viene un suono di zampilli. Guido Gozzano, Il Castello di Agliè Quando ho visitato Agliè c'era il mercato nella piazza del Castello, così io e mio papà abbiamo dovuto percorrere la strada che separa il parco dal resto del complesso per andare trovare parcheggio dietro i giardini. Ritornando verso il borgo stavo rischiando di perdermi il timido scorcio della facciata interna che si mostrava dai cancelli, coperta da una schiera di alberi. Ancora oggi, quando penso ad Agliè, mi viene in mente l'immagine di quell'edificio imponente, con ancora qualcosa delle sue origini medievali a ben osservarlo, così serio e quasi austero nella sua geometria, che sembrava quasi volersi nascondere timidamente. Mi sento sempre un po' in soggezione quando lo rivedo nelle mie foto, proprio come quando mi sono avvicinata a quei cancelli. Sì, perché al Castello di Agliè non servono tanti fronzoli per farsi ammirare, ma la sua semplicità basta per incutere un senso di rispetto e di curiosità in chiunque gli si avvicini. Per non parlare, poi, dell'effetto che fa passeggiare per i giardini e aggirarsi nell'immenso parco al di là della strada, tanto grande che, a volerlo, ci si può dimenticare di tutto e convincersi di essersi perduti chissà dove. Un po' di storia.... Il Castello Ducale di Agliè domina il borgo torinese omonimo già dal XII secolo, quando è residenza del casato dei San Martino di Agliè, che proprio in quell'epoca inizia a imporre il proprio dominio sul Canavese. L'edificio mantiene l'aspetto di fortezza medievale, circondato da mura e da un fossato e con un possente maschio centrale, fino alla metà del XVII secolo. È il conte Filippo di San Martino, consigliere di Maria Cristina di Francia, a occuparsi di un primo rifacimento del castello, commissionando ad Amedeo di Castellamonte un progetto che comprende la presenza di due corti, una verso Agliè e l'altra interna, il rifacimento della facciata che dà sul giardino e la trasformazione delle torri in due padiglioni. I lavori procederanno fino al 1667, anno della morte del conte. Nel 1764 la proprietà passa ai Savoia e Carlo Emanuele III commissiona a Ignazio Birago di Borgaro l'ampliamento del complesso. L'architetto si occupa di realizzare ariosi appartamenti all'interno, mentre all'esterno edifica la chiesa parrocchiale e la collega al castello mediante una galleria a due piani (ne era prevista una seconda sul lato opposto, a dare simmetria all'insieme, che però non fu realizzata). Il Birago chiama a sé gli artisti impegnati anche alla corte di Torino per realizzare la monumentale Fontana dei Quattro Fiumi, che accoglie i visitatori al loro ingresso nel giardino. Come accade in diverse residenze sabaude del Torinese durante l'occupazione napoleonica, anche il Castello di Agliè è spogliato dei suoi arredi per poi essere convertito in ricovero per mendicanti e indigenti, mentre il parco è destinato ai privati per uso agricolo. Si costruisce anche la strada che ancora oggi separa il parco dal giardino, unico elemento che non è stato possibile rimuovere quando, dopo la Restaurazione, il Castello è tornato nelle mani dei Savoia. Nel 1825 la proprietà passa a Carlo Felice e alla moglie Maria Cristina di Borbone-Napoli, che portano avanti una nuova stagione di restauri affidata all'architetto Michele Borda di Saluzzo. Egli si occupa della risistemazione degli interni, oltre alla trasformazione del giardino all'italiana in una chiave più romantica. Con la morte di Maria Cristina, avvenuta nel 1849, il Castello Ducale rientra nei possedimenti di Carlo Alberto di Savoia-Carignano e rimarrà in mano a questo ramo della dinastia sabauda fino al 1939, quando il duca Tommaso di Savoia-Genova lo venderà allo Stato. Durante la Seconda Guerra Mondiale l'edificio è segretamente adibito a deposito di oggetti e documenti a rischio di requisizione tedesca (nelle ex-cucine sono ospitati persino i tesori del Museo Egizio) e appena finito il conflitto è fatto oggetto di una serie di restauri che lo porteranno all'apertura al pubblico. In un secondo momento anche i giardini e il parco sono risistemati e anch'essi diventano visitabili a partire dal 1986. Volete saperne di più? Date un'occhiata ai link qui sotto:
|
Silvia MazzuccoStudentessa di Lettere Moderne e fotografa per passione. Archives
May 2019
Categorie
All
|