Una vita sola è troppo poca per una ragazza come Eleonora Sacco, con mille idee per la testa, troppi posti da visitare e un sacco di storie da raccontare. Quando ti parla delle sue esperienze il suo volto si illumina, le sue labbra sono mosse da un entusiasmo quasi frenetico e i suoi occhi si stringono in un sorriso, come se non stesse aspettando altro che una tua domanda sull’ultimo posto che ha visitato o sui suoi progetti futuri. Ho conosciuto Eleonora tra i banchi dell’università. Non abbiamo iniziato subito a conoscerci e a raccontarci, ma quando l’abbiamo fatto per me è stata la scoperta di un mondo nuovo, un unico grande universo in cui c’è spazio per tutto ciò che di più diverso Eleonora ha collezionato durante i suoi viaggi. Sì, perché dai chilometri che si macina alla scoperta di posti nuovi, Eleonora non porta a casa souvenir e cartoline, ma occhi sempre nuovi con cui vedere ciò che la circonda e parole nuove con cui raccontarlo agli altri. E foto bellissime, che ti colpiscono non tanto e non solo dal punto di vista estetico, quanto per ciò che ti mostrano: piccoli scorci di realtà spesso dimenticate, ignorate o nascoste, a prima vista insignificanti ma molto, molto eloquenti. Non ho memoria, tra le sue avventure a me note, di una sola che fosse “commerciale” - anche perché se no non sarebbero più avventure, giusto? - e anche quando sceglie delle mete note o frequentate, Eleonora si impegna a ricercare soluzioni di viaggio, di alloggio e di itinerario diverse e soprattutto, per quanto è possibile economiche. Dalla scorsa primavera, con un viaggio sul Monte Olimpo alle porte, Eleonora ha anche inaugurato un suo blog personale, Pain de Route (di cui trovate il link sotto), che contiene consigli, racconti, recensioni e anche simpatiche classifiche e spezzoni di vita vera, tutto ovviamente tratto dalle sue esperienze. Ma perché annoiarvi con le mie parole? Lascio che sia Eleonora a raccontarsi, rispondendo alle domande che le ho sottoposto qualche giorno fa in esclusiva per i miei - per i nostri - lettori. Quando è nata la tua passione per la fotografia? Partiamo con domande facili, eh! Al ginnasio, forse vedendo altri che si appassionavano, ho iniziato a sfruttare i megapixel del mio cellulare e a “pensare” in un senso proto-fotografico. Poi ho trovato in casa la Yashica FX-3 2000 super analogica di mio padre e da lì ho iniziato a smanettare, finché non sono approdata al digitale, nel 2011. Quali sono state le tue prime esperienze? La prima foto fatta con un qualche criterio è una foto a delle oche in un prato - avevo 8 anni, suvvia… Inizio penoso a parte, ho sempre avuto una vocazione mezzo-artistica, che fin da piccola ho espresso in tutti gli ambiti possibili, grazie soprattutto all’incoraggiamento di mio nonno materno. Parlando di esperienze più concrete, credo di avere appena iniziato (ndr. e qui mi fa un tipografico occhiolino) Ho fatto, negli ultimi anni, piccoli lavoretti su commissione, foto per curriculum, tantissimi reportage in viaggio, foto varie più per poetica personale, ho venduto una foto a Dolce&Gabbana (anche io stento a crederci, ma è così) e a dicembre 2014, dietro piazza del Duomo, ho inaugurato una mostra fotografica su Turchia e Balcani, AlmostEvropa, che da lì si è spostata in diverse location tra Milano e hinterland. A maggio ho svolto anche una serie di ritratti di documentazione sulle donne della comunità eritrea di Milano, Call for beauty. Un altro tuo grande amore è quello per i viaggi: la fotografia è stata qualcosa di successivo o si tratta di due passioni che semplicemente si sono sposate bene? I viaggi sono (quasi) tutta la mia vita: senza di loro non sarei quella che sono oggi. Sono due passioni parallele ma sicuramente i viaggi hanno influito fortemente sulle foto più che il contrario, anche se sono “nati” dopo. Quali sono i tuoi soggetti preferiti? L’espressività, senza dubbio. Che significa ogni cosa in cui si possa leggere una sfumatura di umanità, che sappia provocarci, sconvolgerci, emozionarci, parlarci senza filtri, anche e soprattutto con irriverenza. Da una scodella di latta in un campo islandese alle bande di bambini circondati dal cemento, nelle montagne armene. Qualche tempo fa dicevo “paesaggi umani”; oggi non so se è ancora una definizione adatta. C’è un messaggio particolare che vuoi trasmettere con i tuoi scatti? Proprio qualche settimana fa, parlando con un caro amico, è venuta fuori una definizione più precisa della nuova “attenzione” che ho sviluppato negli ultimi mesi. Il soggetto è diventato semplicemente il pretesto per un secondo piano di lettura che non definirei un “messaggio”, ma solo un appiglio alla riflessione su temi più grandi. Pur mantenendo il distacco-rispetto per il reale della fotografia di reportage o di documentazione, che amo per la sua vocazione all’utile etico-poetico, ho iniziato (in realtà, inconsciamente) ad aumentare la densità negli scatti e a sviluppare alcuni temi che un po’ mi tormentavano: la violenza metodica del tempo-storia, la presenza costante di un doppio universo “filosofico” che si rivela a sprazzi, la lettura psicologica nei volti umani, l’anima nei paesaggi urbani e naturali. Era solo un’esigenza comunicativa: focalizzare l’attenzione degli altri su alcuni punti notevoli che ci passano di fianco nella vita, siano essi belli, brutti, sconvenienti, fotogenici o anti-commerciali. E’ un documentare la normalità, il modesto, il dubbio, l’indecifrabile, anche e soprattutto il banale. Particolarmente caro mi è quello della violenza storica, che si fa leggere, nella sua struggente bellezza, tra le crepe dei muri, nel cemento degli scempi edilizi, nella ruggine, nei palazzi crollati, nella vegetazione incontrollata, nei simboli monolitici del passato circondati dalle molteplici contraddizioni del nostro tempo. E ora che ci penso tutto questo è iniziato a nascere, tre o quattro anni fa, prima quando ho visto la quiete di un cimitero imbiancato, in un'isola sperduta delle Cicladi, e quando ho visto le lunghissime e meccaniche scale mobili della metropolitana del primo paese ex-comunista in cui sono stata, l’Ungheria. Per capirci meglio, qualcuno una volta mi ha detto: «Io vedo una scritta su un muro e penso che la città sia degenerata. Tu ci vedi un segno naturale del nostro tempo». In che misura le tue esperienze di viaggio influenzano il tuo stile? Le esperienze di viaggio mi hanno cambiato la vita! Il viaggiare mi ha insegnato a privarmi del superfluo, a tornare a uno stato primitivo fatto di elementi essenziali. Questo significa imparare a non avere paura, ribrezzo, pregiudizi, a dormire per terra, a saper resistere alla fame, al freddo, alla stanchezza, alle vesciche ai piedi, al fare a meno delle convenzioni della società in cui normalmente siamo imbevuti. In fotografia significa essenzialità, meno retorica, meno fronzoli, meno filtri formali, meno regolette accademiche e sostanzialmente più severità nel salvare o condannare una fotografia. Il criterio principe è la densità di contenuti e la loro leggibilità. Se non ha gli elementi basici per parlare e non parla, non c’è photoshop che tenga. Deve in qualche modo arrivare al sodo: anche per strade tortuose, ma deve arrivarci. Se non ce la fa, avanti la prossima. Progetti per il futuro? Sicuramente continuare sulla scia di AlmostEvropa e proporre un’altra ricerca del genere sul Caucaso. Ho già acceso il fuoco per far bollire le idee… questa volta vorrei fare un lavoro più preciso soprattutto tecnicamente e curare meglio la promozione dell’evento, esporlo in più luoghi e più a lungo. Continuerò anche l’attività del blog, su cui pubblico foto più “commerciali” per accompagnare gli articoli; le mie preferite sono invece sempre su Flickr. Qual è il tuo fotografo preferito? Sono così onnivora che mi è difficile rispondere. Sarò banale. Mi piace moltissimo Shore, il suo culto per la banalità e il rispetto reverenziale per ogni sfaccettatura della realtà. L’irriverenza e l’immediatezza di Klein. Le atmosfere di Basilico. Anche Koudelka, dai. E The Americans di Robert Frank e Les amies de la plache blanche di Stromholm. Vorresti che la fotografia facesse parte della tua vita lavorativa o preferiresti che rimanesse un hobby? È ancora un po' presto per pensarci (ndr. altro sorriso)! Mi piacerebbe scrivere guide di viaggio con testi e foto. Il grande dilemma sono i compromessi a cui bisogna scendere - sono dolorosi. Anche la strada del fotoreporter continua ad affascinarmi, nonostante sappia quanto sia difficile. Qual è, tra i tuoi scatti, quello che più ti rappresenta? È una foto che ho scattato nel 2012, in Grecia, proprio su quell'isola dove ho visto il cimitero bianco. C’è una scala rosa in muratura illuminata dalla luce del tramonto. L’ho scelta (ndr. con molta fatica…) perché è una foto del primo viaggio che davvero mi ha cambiato la vita e in cui ho capito cosa vuol dire viaggiare. Perché ci sono gli spigoli dei gradini che vanno in tutte le direzioni, e a mezzogiorno sarebbe stata una qualunque scalinata che porta al tetto di una casa. Ma al tramonto anche lo spigolo più acuto e insensibile, incrostato di sale, riverniciato sempre dello stesso bianco anno dopo anno, uguale a tanti altri, prende una sfumatura indicibile. Odio il rosa, ma, per me, questo qui è il colore del paradiso. Qui sotto potete vedere una galleria con altre foto di Eleonora: Se siete rimasti colpiti dalla sua storia ecco alcuni "link a Eleonora":
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Silvia MazzuccoStudentessa di Lettere Moderne e fotografa per passione. Archives
May 2019
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