Tank Man - Jeff WidenerQuello di Jeff Widener è il più famoso tra i diversi scatti che hanno immortalato questo momento della protesta di Piazza Tienanmen a Pechino, il 5 giugno 1989; il giorno prima l'esercito cinese aveva iniziato a reprimere la dimostrazione. La fotografia è stata scattata da Widener dal sesto piano di un hotel della capitale cinese e ritrae un uomo che, in piedi davanti a una fila di quattro carri armati, ostacola il loro passaggio operando la resistenza passiva. Poco si sa dell'uomo protagonista dell'immagine: l'ipotesi più accreditata è che si trattasse di uno studente di 19 anni, ma non ci sono mai state notizie ufficiali e confermate sulla sua identità. Sono diverse anche le versioni sulla sua vita dopo il 5 giugno 1989: alcuni ipotizzano che sia stato giustiziato poco dopo il fatto o che sia stato a lungo incarcerato, alcuni testimoni riportano di averlo visto mentre la polizia lo arrestava e lo portava via, mentre ci sono anche versioni secondo cui egli sarebbe sopravvissuto. Al di là dei problemi di ricostruzione storica, questo scatto restituisce un momento di grande coraggio e affermazione del senso di giustizia, resi possibili solo dallo strenuo attaccamento di un uomo ai suoi ideali e alle sue convinzioni Raising the Flag on Iwo Jima - Joe RosenthalJoe Rosenthal ha scattato questa fotografia il 23 febbraio 1945, durante la battaglia di Iwo Jima della Seconda Guerra Mondiale. Sono ritratti sei militari statunitensi mentre issano la bandiera a stelle e strisce sulla vetta del monte Suribachi, roccaforte giapponese appena conquistata. L'immagine riscosse molto successo, diventando l'icona della propaganda statunitense per sostenere lo sforzo bellico della Nazione, e ne portò altrettanta al suo autore, che vinse il Premio Pulizer per la fotografia nello stesso anno. La foto di Roesenthal, inoltre, è stata presa a modello per la realizzazione scultorea del Marine Corps War Memorial, a Washington. Young girl with flower in a demonstration against the war in Vietnam - Marc RiboudIl fotografo francese Marc Riboud immortalò questa scena a Washington D.C. il 21 ottobre 1967, durante una manifestazione contro la guerra in Vietnam, realizzando una delle immagini più famose nel contesto delle manifestazioni pacifiste. Lo scatto ritrae una ragazza, Jan Rose Kasmir, con un fiore in mano e uno sguardo dolce, in piedi davanti a una fila di soldati con il compito di controllare la dimostrazione. In un'intervista, Riboud ha commentato la foto dicendo: «Stava solo parlando, cercava di catturare lo sguardo dei soldati e forse di avere un dialogo con loro. Ho avuto la sensazione che i militari fossero più spaventati di lei di quanto lei stessa lo fosse delle loro baionette». D-Day - Robert CapaQuesta fotografia è stata scattata da Robert Capa, reporter ungherese passato alla storia per aver testimoniato, con le sue immagini, diversi conflitti, tra cui la Seconda Guerra Mondiale. Il 6 giugno 1944 partecipò allo sbarco alleato a Omaha Beach, in Normandia, e lo documentò con 106 fotografie, la maggior parte delle quali andò distrutta a causa di un errore tecnico nel laboratorio fotografico del Life a Londra: lo scatto qui a fianco è uno degli undici superstiti, etichettati come «The Magnificent Eleven». Le immagini di Capa furono pubblicate dal Life il 19 giugno 1944 e sotto alcune di esse appariva una didascalia: «slightly out of focus», leggermente fuori fuoco, frase che lo stesso Capa scelse come titolo per un suo racconto autobiografico della sua esperienza sui campi di battaglia. Segregated Water Fountains - Eliott ErwittEliott Erwitt è un artista dalle molte sfaccettature. A voler considerare solo una parte della sua produzione, sembra essersi votato al disimpegno e alla leggerezza (è famosa la sua predilezione per i cani come soggetto fotografico, cui ha dedicato quattro libri, ma sono noti anche i suoi scatti a Marylin Monroe o quello famoso del bacio riflesso nello specchietto), ma Erwitt è in realtà fotografo dell'assurdo, dell'incoerenza e induce alla riflessione non con la retorica, con la pesantezza di chi sa di avere molto da raccontare, ma mettendo davanti ai nostri occhi situazioni quotidiane nelle loro più evidenti contraddizioni. È questo il caso dell'immagine qui a fianco, frutto dell'essere al posto giusto al momento giusto di cui egli stesso ha parlato spesso, diventata invece il manifesto delle lotte contro la segregazione razziale senza mai aver ambito ad esserlo. Erwitt la scatta nel 1950, durante una sosta in un bagno pubblico del North Carolina, dove era andato a visitare un amico. In un'intervista a Mario Calabresi, per il suo recente volume, A occhi aperti, il fotografo commenterà così questa istantanea: «Lo stesso tubo, la stessa acqua, una però è raffreddata e l'altra no. Un erogatore è moderno, l'altro è vecchio e scrostato. Era tutto così terribilmente chiaro».
1 Comment
Con #Piemontedafotografare scoprirai qualcosa in più sulla Regione in cui vivo e la vedrai attraverso i miei scatti. Se sono riuscita a interessarti, considera l'idea di venire a fare un giro per conoscere con i tuoi occhi la bellezza che mi circonda! È il simbolo di Torino e una guida, con i suoi 167 metri di altezza, per chiunque visiti il capoluogo piemontese: è la Mole Antonelliana, confidenzialmente chiamata, da torinesi e non, «la Mole». Non mi sento mai veramente arrivata a Torino finché non la vedo stagliarsi sul cielo con tutta la sua imponenza, a darmi il suo saluto come ogni vera padrona di casa sa di dover fare. Anche se, a girare per Torino, è difficile non sentirsi sempre osservati dalla sua alta guglia, è impossibile non venire colti di sorpresa quando, passeggiando in via Montebello, ci si ritrova davanti al pronao che fa da ingresso all'edificio, come se ci si trovasse davanti a un tempio antico, per poi alzare gli occhi verso la cupola dalla strana forma allungata e la guglia, che si solleva prepotente verso le nuvole. Vuoi vedere la sciarpa rossa di Federico Fellini, le pistole usate in Pulp Fiction o la bombetta di Charlie Chaplin? Allora entra all'interne della Mole, dove è allestito il Museo Nazionale del Cinema, uno dei più visitati in Italia, che contiene numerosi oggetti di scena, bozzetti, costumi e una importante collezione sulla fase pre-cinematografica. Se invece vuoi sentirti per un attimo il vero padrone della città, sali sull'ascensore panoramico: ti condurrà dritto al "tempietto" che sovrasta la cupola, da cui potrai godere di una vista mozzafiato su Torino. Un po' di storia... Dopo che, nel 1848, lo Statuto Albertino ha concesso la libertà di culto alle religioni non cattoliche, la comunità ebraica acquista un appezzamento di terreno nell'attuale Via Montebello e commissiona ad Alessandro Antonelli la costruzione di un tempio. Il progetto, che inizialmente prevedeva un edificio alto solo 47 metri, è ampliato nel tempo dall'architetto, ma le sue scelte non troveranno il favore della comunità ebraica che nel 1869, anche a causa di una mancanza di fondi, interrompe i lavori chiudendo la costruzione con un tetto a 70 metri di altezza. Nel 1873 il comune di Torino prende in carico l'opera, barattandola con un terreno nel quartiere di San Salvario, dove ora è situata l'attuale sinagoga, e si impegna a portarla a compimento per dedicarla a Vittorio Emanuele II. I lavori proseguono ancora sotto Antonelli, che idea la terminazione appuntita dell'edificio, pur senza completare la guglia, la cui costruzione è ultimata nel 1888, anno della morte dell'architetto: la sommità dell'edificio supera così i 163 metri e ne fa il più alto al mondo, motivo per cui è chiamato Mole. La Mole Antonelliana è inaugurata nel 1889 e nell'occasione sulla punta della guglia è collocato un genio alato alto 4 metri, il che innalzò ulteriormente l'edificio. Nell'agosto del 1904, però, la statua crolla a causa di un nubifragio e l'anno successivo viene collocata al suo posto una stella a cinque punte, mentre il genio alato è conservato all'interno della struttura, pur essendo spesso scambiato per un angelo. Le disavventure della Mole non finiscono qui: nel 1953 una tromba d'aria spezza parte della guglia, che precipita nel giardino della sede Rai, senza ferire, fortunatamente, alcuna persona. I lavori di ristrutturazione durano fino al 1960, quando viene terminata una nuova guglia, questa volta con un'armatura metallica, sulla cui cima è posta una stella tridimensionale a 12 punte. Terminati i lavori, l'edificio ristrutturato è inaugurato il 31 gennaio 1961, durante le celebrazioni per il centenario dell'Unità d'Italia. Dal 2000 la Mole Antonelliana è la sede del Museo Nazionale del Cinema, uno dei luoghi più visitati di Torino e una delle sedi di esposizioni permanenti con più ingressi di tutta Italia, con una superficie visitabile di 3200 metri quadrati disposti su cinque piani e una quantità sterminata di cimeli appartenenti al mondo del cinema, oltre a una importante collezione di pezzi appartenenti alla fase "preistorica" del cinema. Ah... mai guardato dietro la moneta da 2 centesimi?! Vuoi arrivare a saperne più dei torinesi sulla Mole? Allora visita i link qui sotto:
Una vita sola è troppo poca per una ragazza come Eleonora Sacco, con mille idee per la testa, troppi posti da visitare e un sacco di storie da raccontare. Quando ti parla delle sue esperienze il suo volto si illumina, le sue labbra sono mosse da un entusiasmo quasi frenetico e i suoi occhi si stringono in un sorriso, come se non stesse aspettando altro che una tua domanda sull’ultimo posto che ha visitato o sui suoi progetti futuri. Ho conosciuto Eleonora tra i banchi dell’università. Non abbiamo iniziato subito a conoscerci e a raccontarci, ma quando l’abbiamo fatto per me è stata la scoperta di un mondo nuovo, un unico grande universo in cui c’è spazio per tutto ciò che di più diverso Eleonora ha collezionato durante i suoi viaggi. Sì, perché dai chilometri che si macina alla scoperta di posti nuovi, Eleonora non porta a casa souvenir e cartoline, ma occhi sempre nuovi con cui vedere ciò che la circonda e parole nuove con cui raccontarlo agli altri. E foto bellissime, che ti colpiscono non tanto e non solo dal punto di vista estetico, quanto per ciò che ti mostrano: piccoli scorci di realtà spesso dimenticate, ignorate o nascoste, a prima vista insignificanti ma molto, molto eloquenti. Non ho memoria, tra le sue avventure a me note, di una sola che fosse “commerciale” - anche perché se no non sarebbero più avventure, giusto? - e anche quando sceglie delle mete note o frequentate, Eleonora si impegna a ricercare soluzioni di viaggio, di alloggio e di itinerario diverse e soprattutto, per quanto è possibile economiche. Dalla scorsa primavera, con un viaggio sul Monte Olimpo alle porte, Eleonora ha anche inaugurato un suo blog personale, Pain de Route (di cui trovate il link sotto), che contiene consigli, racconti, recensioni e anche simpatiche classifiche e spezzoni di vita vera, tutto ovviamente tratto dalle sue esperienze. Ma perché annoiarvi con le mie parole? Lascio che sia Eleonora a raccontarsi, rispondendo alle domande che le ho sottoposto qualche giorno fa in esclusiva per i miei - per i nostri - lettori. Quando è nata la tua passione per la fotografia? Partiamo con domande facili, eh! Al ginnasio, forse vedendo altri che si appassionavano, ho iniziato a sfruttare i megapixel del mio cellulare e a “pensare” in un senso proto-fotografico. Poi ho trovato in casa la Yashica FX-3 2000 super analogica di mio padre e da lì ho iniziato a smanettare, finché non sono approdata al digitale, nel 2011. Quali sono state le tue prime esperienze? La prima foto fatta con un qualche criterio è una foto a delle oche in un prato - avevo 8 anni, suvvia… Inizio penoso a parte, ho sempre avuto una vocazione mezzo-artistica, che fin da piccola ho espresso in tutti gli ambiti possibili, grazie soprattutto all’incoraggiamento di mio nonno materno. Parlando di esperienze più concrete, credo di avere appena iniziato (ndr. e qui mi fa un tipografico occhiolino) Ho fatto, negli ultimi anni, piccoli lavoretti su commissione, foto per curriculum, tantissimi reportage in viaggio, foto varie più per poetica personale, ho venduto una foto a Dolce&Gabbana (anche io stento a crederci, ma è così) e a dicembre 2014, dietro piazza del Duomo, ho inaugurato una mostra fotografica su Turchia e Balcani, AlmostEvropa, che da lì si è spostata in diverse location tra Milano e hinterland. A maggio ho svolto anche una serie di ritratti di documentazione sulle donne della comunità eritrea di Milano, Call for beauty. Un altro tuo grande amore è quello per i viaggi: la fotografia è stata qualcosa di successivo o si tratta di due passioni che semplicemente si sono sposate bene? I viaggi sono (quasi) tutta la mia vita: senza di loro non sarei quella che sono oggi. Sono due passioni parallele ma sicuramente i viaggi hanno influito fortemente sulle foto più che il contrario, anche se sono “nati” dopo. Quali sono i tuoi soggetti preferiti? L’espressività, senza dubbio. Che significa ogni cosa in cui si possa leggere una sfumatura di umanità, che sappia provocarci, sconvolgerci, emozionarci, parlarci senza filtri, anche e soprattutto con irriverenza. Da una scodella di latta in un campo islandese alle bande di bambini circondati dal cemento, nelle montagne armene. Qualche tempo fa dicevo “paesaggi umani”; oggi non so se è ancora una definizione adatta. C’è un messaggio particolare che vuoi trasmettere con i tuoi scatti? Proprio qualche settimana fa, parlando con un caro amico, è venuta fuori una definizione più precisa della nuova “attenzione” che ho sviluppato negli ultimi mesi. Il soggetto è diventato semplicemente il pretesto per un secondo piano di lettura che non definirei un “messaggio”, ma solo un appiglio alla riflessione su temi più grandi. Pur mantenendo il distacco-rispetto per il reale della fotografia di reportage o di documentazione, che amo per la sua vocazione all’utile etico-poetico, ho iniziato (in realtà, inconsciamente) ad aumentare la densità negli scatti e a sviluppare alcuni temi che un po’ mi tormentavano: la violenza metodica del tempo-storia, la presenza costante di un doppio universo “filosofico” che si rivela a sprazzi, la lettura psicologica nei volti umani, l’anima nei paesaggi urbani e naturali. Era solo un’esigenza comunicativa: focalizzare l’attenzione degli altri su alcuni punti notevoli che ci passano di fianco nella vita, siano essi belli, brutti, sconvenienti, fotogenici o anti-commerciali. E’ un documentare la normalità, il modesto, il dubbio, l’indecifrabile, anche e soprattutto il banale. Particolarmente caro mi è quello della violenza storica, che si fa leggere, nella sua struggente bellezza, tra le crepe dei muri, nel cemento degli scempi edilizi, nella ruggine, nei palazzi crollati, nella vegetazione incontrollata, nei simboli monolitici del passato circondati dalle molteplici contraddizioni del nostro tempo. E ora che ci penso tutto questo è iniziato a nascere, tre o quattro anni fa, prima quando ho visto la quiete di un cimitero imbiancato, in un'isola sperduta delle Cicladi, e quando ho visto le lunghissime e meccaniche scale mobili della metropolitana del primo paese ex-comunista in cui sono stata, l’Ungheria. Per capirci meglio, qualcuno una volta mi ha detto: «Io vedo una scritta su un muro e penso che la città sia degenerata. Tu ci vedi un segno naturale del nostro tempo». In che misura le tue esperienze di viaggio influenzano il tuo stile? Le esperienze di viaggio mi hanno cambiato la vita! Il viaggiare mi ha insegnato a privarmi del superfluo, a tornare a uno stato primitivo fatto di elementi essenziali. Questo significa imparare a non avere paura, ribrezzo, pregiudizi, a dormire per terra, a saper resistere alla fame, al freddo, alla stanchezza, alle vesciche ai piedi, al fare a meno delle convenzioni della società in cui normalmente siamo imbevuti. In fotografia significa essenzialità, meno retorica, meno fronzoli, meno filtri formali, meno regolette accademiche e sostanzialmente più severità nel salvare o condannare una fotografia. Il criterio principe è la densità di contenuti e la loro leggibilità. Se non ha gli elementi basici per parlare e non parla, non c’è photoshop che tenga. Deve in qualche modo arrivare al sodo: anche per strade tortuose, ma deve arrivarci. Se non ce la fa, avanti la prossima. Progetti per il futuro? Sicuramente continuare sulla scia di AlmostEvropa e proporre un’altra ricerca del genere sul Caucaso. Ho già acceso il fuoco per far bollire le idee… questa volta vorrei fare un lavoro più preciso soprattutto tecnicamente e curare meglio la promozione dell’evento, esporlo in più luoghi e più a lungo. Continuerò anche l’attività del blog, su cui pubblico foto più “commerciali” per accompagnare gli articoli; le mie preferite sono invece sempre su Flickr. Qual è il tuo fotografo preferito? Sono così onnivora che mi è difficile rispondere. Sarò banale. Mi piace moltissimo Shore, il suo culto per la banalità e il rispetto reverenziale per ogni sfaccettatura della realtà. L’irriverenza e l’immediatezza di Klein. Le atmosfere di Basilico. Anche Koudelka, dai. E The Americans di Robert Frank e Les amies de la plache blanche di Stromholm. Vorresti che la fotografia facesse parte della tua vita lavorativa o preferiresti che rimanesse un hobby? È ancora un po' presto per pensarci (ndr. altro sorriso)! Mi piacerebbe scrivere guide di viaggio con testi e foto. Il grande dilemma sono i compromessi a cui bisogna scendere - sono dolorosi. Anche la strada del fotoreporter continua ad affascinarmi, nonostante sappia quanto sia difficile. Qual è, tra i tuoi scatti, quello che più ti rappresenta? È una foto che ho scattato nel 2012, in Grecia, proprio su quell'isola dove ho visto il cimitero bianco. C’è una scala rosa in muratura illuminata dalla luce del tramonto. L’ho scelta (ndr. con molta fatica…) perché è una foto del primo viaggio che davvero mi ha cambiato la vita e in cui ho capito cosa vuol dire viaggiare. Perché ci sono gli spigoli dei gradini che vanno in tutte le direzioni, e a mezzogiorno sarebbe stata una qualunque scalinata che porta al tetto di una casa. Ma al tramonto anche lo spigolo più acuto e insensibile, incrostato di sale, riverniciato sempre dello stesso bianco anno dopo anno, uguale a tanti altri, prende una sfumatura indicibile. Odio il rosa, ma, per me, questo qui è il colore del paradiso. Qui sotto potete vedere una galleria con altre foto di Eleonora: Se siete rimasti colpiti dalla sua storia ecco alcuni "link a Eleonora":
Dopo un'intensa e il più possibile rigorosa sessione di esami la mia creatività ha bisogno di sfogarsi. Questa volta mi sono indirizzata su un progetto che fosse in parte anche fotografico e ho deciso di creare dei portafoto in legno che ricordassero delle Polaroid, su cui ho trasferito alcune mie fotografie still-life. Per farmi tagliare i pannelli di MDF (un derivato del legno, più leggero - credo - del compensato) che hanno fatto da base per il mio lavoro ho cercato le dimensioni delle vecchie Polaroid e delle nuove pellicole istantanee verticali (che hanno più o meno il formato di un biglietto da visita) e ho scelto delle misure che ne rispettassero le proporzioni: 9x11 cm le piccole e 10x16 cm le più grandi. Ho fatto anche tagliare una base da un listello in legno (non mi ricordo benissimo le dimensioni, ma mi sembra 6x6 cm per i pannelli piccoli e 7x6 cm per quelli grandi, entrambi da listelli alti 4 cm), su cui ho fatto anche fare una scanalatura di 4mm (lo spessore dell'MDF) inclinata di circa 15-20 gradi. Per quanto riguarda le immagini, come vi anticipavo, ho scelto delle mie foto scattate un po' di tempo fa e ho deciso, visto che avevo in mente di mettere tutti i quadretti in un ambiente unico e abbastanza vicini tra loro, di creare una sorta di "serie" fotografica con lo stesso soggetto ripreso da inquadrature diverse. Per la tecnica che ho usato, di cui spiegherò bene tra poco, ho dovuto stampare le immagini a laser su normale carta da fotocopie, capovolte come se fossero state riflesse allo specchio. Entriamo nel vivo dell'operazione: ho steso innanzitutto un paio di mani di primer bianco con una pennellessa non eccessivamente grande. Un primo accorgimento riguarda la qualità del pennello, che deve essere abbastanza buona per non lasciare troppe righe nella stesura del colore: qualcuna va bene, perché per questo tipo di lavoro non mi piace che la superficie sia troppo levigata e curata, ma un'eccessiva irregolarità del supporto danneggerebbe il lavoro. Dopo aver lasciato asciugare, ho ritagliato le immagini e ho segnato a matita i punti in cui avrei dovuto incollare i vertici superiori, per essere sicura di andare dritta. A questo punto ho preso il Transfer Gel per superfici solide (io ho usato quello di Stamperia, ma ce ne sono diversi in giro) e l'ho steso con cura sul lato stampato delle fotografie - è importante che il gel ricopra uniformemente l'immagine, perché, nel caso mancasse in qualche punto, lì l'immagine non sarebbe trasferita. Appena finito di stendere il prodotto ho fatto aderire la parte bagnata del foglio alla mia tavoletta: rimane così verso l'esterno il lato bianco del foglio, ma è giusto così ed è per questo che l'immagine va stampata capovolta specularmente. È importantissimo accertarsi che non ci siano bolle d'aria sotto la superficie della carta, sempre perché in questo caso l'immagine non sarebbe trasferita, e per questo vi consiglio di spendere qualche minuto a "massaggiare" la carta incollata, per spingere fuori tutte le bolle. Un'altra cosa da tenere a mente è che, appena la fotografia tocca il pannello, il gel inizia subito a lavorare trasferendo il colore ed è quindi molto rischioso staccare il foglio per riposizionarlo (anche per questo conviene segnarsi prima dei riferimenti a matita). Dopo mezz'ora il gel è completamente asciutto e può iniziare la parte più divertente del lavoro: bisogna, infatti, bagnare poco per volta delle porzioni di foglio e iniziare a rimuovere tutta la carta con una leggera pressione del dito, con un movimento circolare. Già applicando l'acqua inizia a vedersi l'immagine trasparire sul fondo, ma, man mano che si rimuove la carta, la foto risalterà sempre di più. Durante questa fase è necessario prestare una particolare attenzione ai bordi, che "saltano via" facilmente, come potete vedere anche dagli esempi che sto inserendo: in realtà non mi dispiace troppo che questo aspetto un po' rovinato, ma mi è capitato di dover rifare completamente uno dei primi quadretti perché partendo dal lato si è staccato via un buon terzo della fotografia. A una prima passata ci si porta via buona parte della carta e il lavoro appare già abbastanza definito. Lasciando asciugare, però, il tutto ritornerà un po' biancastro, perché effettivamente rimane lo strato più vicino alla parte trasferita, che è il più difficile da rimuovere. Per aiutarmi in questa fase ho messo i pannelli direttamente sotto il rubinetto, facendo uscire solo un filo d'acqua, e continuando a "spellare" il tutto. Dopo aver lasciato di nuovo asciugare bisogna valutare il risultato: se non siamo ancora soddisfatti possiamo continuare a bagnare e a rimuovere la carta, avendo cura di essere sempre più delicati man mano che aumentano le passate, mentre, se il tutto ci piace, possiamo passare una o due mani di vernice protettiva (io la preferisco opaca, ma c'è anche lucida). Quando tutto è fermo e perfettamente asciutto (quante volte avrò scritto "asciutto"?! - però è importantissimo!) si possono incastrare i pannelli nelle loro basi e posizionare le nostre composizioni dove più ci piace. Trovo questo progetto un modo originale per valorizzare i nostri scatti, sia che abbiano finalità puramente "estetiche", come i miei, sia che rappresentino momenti da ricordare o siano scatti a cui siamo particolarmente legati. Si tratta anche di un'idea regalo fai-da-te molto bella e dall'aspetto essenziale e abbastanza riproducibile "in serie". Mi spiace di non aver fatto delle fotografie passo-passo di tutte le varie fasi, ma mi è venuto in mente solo dopo che da quello che stavo facendo avrebbe potuto venir fuori - mi auguro - un post interessante per il mio blog. Spero comunque di essere stata abbastanza chiara e, nel caso qualcuno di voi fosse interessato a fare qualche esperimento, vi inserisco il link a un tutorial su Youtube.
Pensate che i giocattoli siano solo per i bambini? Credete che dopo una certa età si debba smettere di fantasticare su dei pezzi di plastica? Esaminando il lavoro del geniale Mike Stimpson, amici miei, penso che dobbiate ricredervi! Volete sapere chi è Mike? Intanto uno che ha passato del tempo sulle scatti dei grandi maestri. Certamente un ragazzo dalla grande creatività che con il suo lavoro mantiene viva l'attenzione su un pezzo di storia della fotografia che probabilmente sarebbe poco presa in considerazione dal pubblico non amatore, soprattutto da quello giovane. Mike, infatti, studia, ricompone e poi fotografa le inquadrature diventate celebri, da quelle dei "pezzi grossi" di Magnum agli scatti dei fotoreporter sul campo di battaglia fino alle immagini destinate alle pagine patinate delle riviste e lo fa con i pezzi e i figurini Lego, quelli con cui tutti abbiamo giocato da bambini e che poi abbiamo accantonato in un ripostiglio o regalato una volta cresciuti. Quando ho visto per caso una delle sue fotografie, mentre cercavo su Google alcune immagini famose, ho subito pensato di essermi imbattuta nell'opera di una personalità geniale. A guardare i rifacimenti di Mike, tutti con le miniature sorridenti, in pose a volte un po' rigide e a volte goffe rispetto all'originale, ma vicinissime al loro modello, per quanto realizzate con dei personaggini in plastica, sembra quasi che lui voglia giocare con quello che è stato il lavoro dei grandi della fotografia, per i più - e soprattutto per i "novellini" come me - divinità inavvicinabili e inimitabili. Se stiamo a osservare i dettagli, però, ci accorgiamo che dietro a questo approccio apparentemente, e forse volutamente, ironico c'è una grande cura del dettaglio e del particolare e la tecnica di chi non gioca con una punta-e-scatta. Molti avrebbero solo reverenza e ammirazione per queste che sono pietre miliari della fotografia, ma Mike fa un passo in avanti: le scompone, le ricompone, ricrea alla perfezione e con tutto il tempo dalla sua parte quella che per i suoi modelli è stata spesso questione di un attimo fortuito, dell'essere stati al posto giusto al momento giusto e dell'istinto di aver colto una potenziale immagine vincente. Per questo Mike è geniale, per questo può solo essere amato o odiato, senza vie di mezzo, ma prima di esprimere ogni giudizio bisogna sforzarsi di guardare al di là dell'immagine che ci propone e riflettere su tutto ciò che un lavoro del genere può comportare e rappresentare. Io ho provato a farlo, e voi? Ah, dimenticavo: oltre ad essere un appassionato di foto storiche, Mike Stimpson è un grande fan di Star Wars e diversi dei suoi lavori, rigorosamente fatti con i Lego, hanno proprio questo tema. Per conoscere meglio Mike Stimpson potete visitare il suo sito web, il suo profilo Facebook o il suo portfolio su Flickr.
|
Silvia MazzuccoStudentessa di Lettere Moderne e fotografa per passione. Archives
May 2019
Categorie
All
|